Difficile contestare che le Marche enoiche siano, nell’immaginario collettivo, soprattutto quelle dove si produce il Verdicchio. Probabilmente una delle varietà a bacca bianca più significative dell’intero panorama vitivinicolo del Bel Paese, che sappiamo ricchissimo. Due le varianti, quello dei Castelli di Jesi e quello di Matelica, profondamente diverse e in grado di rappresentare da un lato la mediterraneità bianchista e dall’altro il tratto più continentale del vitigno. 652 aziende associate, 16 denominazioni di origine di cui 4 Docg - l’Istituto Marchigiano di tutela vini (Imt) è il “regista” del panorama enoico marchigiano dal 1999 e rappresenta l’89% dell’imbottigliato della zona di riferimento, incidendo per il 45% sull’intera superficie vitata regionale (oltre 7.500 ettari tra le province di Ancona, Macerata, Fermo e Pesaro-Urbino). Come spesso accade nell’affollato scenario delle denominazioni italiane, anche a queste latitudini qualche incertezza è tuttavia sorta in fatto di definizione sulle etichette. I tentativi di riportare l’accento sul luogo (come il concetto stesso di denominazione imporrebbe) anziché sul vitigno, negli anni passati hanno colto solo parzialmente nel segno: come nel 2011, quando il cambio di nome per la Docg del Verdicchio passata da Verdicchio dei Castelli di Jesi Riserva a Castelli di Jesi Verdicchio Riserva, ha lasciato la situazione sostanzialmente invariata o, almeno, non chiarita fino in fondo negli intenti. Proprio in queste ultime ore, però, la questione è stata ridiscussa, lasciando la possibilità alle aziende di omettere completamente il vitigno, intanto per le tipologie della Docg, quali Castelli di Jesi Superiore, Classico Superiore, Riserva e Classico Riserva.
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