L’atto di fondazione del “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca di origine” fu sottoscritto il 14 maggio 1924. Nell’assemblea, a Radda in Chianti, che ne sancì la costituzione, il professor Alberto Oliva, rappresentante di Luigi Ricasoli in quel consesso, con il suo intervento già intuiva la sfida che quel Consorzio appena nato avrebbe dovuto sostenere: “Non bisogna farsi illusioni la lotta che noi dovremo sostenere è lunga, faticosa e dispendiosa, ma se saremo tutti uniti nel proposito di vincere, potremo arrivare a buoni risultati. Noi ci troviamo di fronte avversari forti, temibili, furbi… Ma non importa: costituiamo il Consorzio...”. Cento anni dopo, la sfida di quel Consorzio oggi del Chianti Classico sembra essere completamente vinta, proprio in nome di quella aggregazione e quel genio, anche femminile, evocata nel 1924: il solo elemento, alla fine, capace di governare una produzione che parla “di” e “ad” un intero territorio. Il Chianti Classico, la denominazione sospesa tra Firenze e Siena - 6.800 ettari vitati, 486 produttori, di cui 345 che abbracciano l’intera filiera e una produzione complessiva oscillante tra i 35-38 milioni di bottiglie ogni anno, per un valore economico di distretto, con il vino come perno, stimabile intorno a 1 miliardo di euro - rappresenta attualmente una delle più solide realtà vitivinicole della Toscana e dell’intero panorama nazionale. E oggi finalmente, con la candidatura a Patrimonio Unesco tramite il paesaggio armonioso del suo “sistema di ville-fattorie” e con l’introduzione della Gran Selezione e infine delle Uga, si avvia a quello che è un vero e proprio processo concreto di valorizzazione enoica: guarda caso dissipando i timori più sentiti che spinsero 33 produttori, nel 1924, ad unirsi.
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(fp)
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