Dopo le oscillazioni del biennio 2020-2021, il Barolo è tornato, nel 2022, al suo potenziale produttivo “normale” di 14 milioni di bottiglie, che poi è la produzione media dell’ultimo decennio, imposta soprattutto dal fatto che non è possibile farne di più (la superficie dei vigneti a Barolo è 2.200 ettari, con un valore ad ettaro, soprattutto dei Cru più importanti, che va ben oltre i 2 milioni e mezzo di euro). Le cantine sono tornate vuote, le giacenze sono ai minimi storici, il prezzo medio a bottiglia è fra i più alti dei territori di pregio italiani e il prezzo dello sfuso spunta cifre ragguardevoli (l’annata 2018, secondo i dati di Settembre/Ottobre 2022 della Camera di Commercio di Cuneo sta su una forbice tra 878 e 947 euro ad ettolitro), anche se poi gli scambi sono pressoché scarsi. Così, il 2023 è partito sotto i migliori auspici, almeno guardando alla semplice ma essenziale legge che governa la denominazione e cioè quella di mantenere, in generale, la domanda superiore all’offerta. È questo, in estrema sintesi, il segreto del Barolo che, naturalmente, viaggia di pari passo, con un confortante standard qualitativo che sembra davvero ormai consolidato se non addirittura in crescita. Poi, va da sé, le incognite non mancano neppure a queste latitudini. E sono sotto gli occhi di tutti: dal riscaldamento climatico, con il Piemonte già oggi a rischio siccità, alle incertezze di un mondo a dir poco in fibrillazione, tra guerra, inflazione e potere di acquisto in tendenziale calo. Resta però ancora accogliente la “comfort zone” dei mercati esteri, anche per il Barolo, un tempo il vino del re d’Italia ed oggi più democraticamente il vino dei presidenti a partire dai piemontesi doc Cavour ed Einaudi in testa.
(fp)
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